Boris Groys: Sull’immortalità

[Pubblico un estratto da  B. Groys, Politik der Unsterblichkeit, Hanser, Monaco 2002, non ancora tradotto in italiano. Si tratta di una serie di interviste fatte da Thomas Knoefel, reperito qui]

TK. […] Se Kierkegaard non fosse stato impotente, se avesse avuto rapporti soddisfacenti, se fosse riuscito a penetrare Regine Olsen — è l’argomento usato da [Leone] Chestov —, non avremmo avuto una filosofia di Kierkegaard.

BG. Questa concezione attraversa una regione vasta e diversificata della filosofia, da Chestov a Goebbels — si tratta di pensatori postmarxisti […] che dipendono dalla filosofia della vita; costoro ritengono di prendere posizione tra i viventi, pensano che la loro situazione riguardi la vita, che sia dunque una situazione vitale e che quando nella vita succede qualcosa di tragico, di traumatico, scatta la fuga verso l’aldilà, verso l’assoluto. Ma è un apprezzamento inesatto, perché in primo luogo noi non viviamo nella vita, viviamo alla presenza dei morti — se siamo traumatizzati, è colpa dei morti. La vita non può avere un effetto traumatizzante, in quanto ciò che è vivente è effimero […] I morti sono una cosa molto più seria per noi, perché se da un lato, dio sia lodato, sono morti, dall’altro continuano a darci ai nervi. / […] questo significa che ci muoviamo in uno spazio simbolico, nel quale abbiamo rapporti non solo coi viventi, ma anche e soprattutto coi morti. A rappresentarli in questo spazio sono le loro opere, le loro immagini, le loro teorie, le loro attitudini, il loro linguaggio. Sono tutte cose di cui ci serviamo — dai morti riceviamo il dono dell’economia simbolica. Nasce da qui l’obbligo di rappresentarci, di tracciare i nostri segni, di creare la nostra immagine, e in fondo anche l’obbligo di disegnare la nostra tomba, la nostra bara, il nostro cadavere. Esigenze del genere non provengono dalla vita, non provengono dai viventi o dal contesto di una catastrofe reale. Questo è anche il motivo profondo dell’insufficienza della maggior parte delle teorie sociologiche che argomentano in nome della società — e designano unicamente la società dei viventi. Il fatto è che noi agiamo soprattutto nella società dei morti; e in quanto testimoni dell’eredità culturale, questi morti non sono morti. Del resto la cultura di massa comprende molto meglio dell’odierna teoria critica questo stato di cose: nei film hollywoodiani i soli personaggi veramente colti sono i vampiri, o sia i morti che non sono morti. / Se Kierkegaard, mettiamo, non poteva giacere con Regine Olsen, avrebbe potuto comunque ucciderla. Avrebbe potuto diventare un serial-killer e uccidere altre ragazze. Ma se invece di uccidere ci si mette a scrivere libri, è perché si è passati a un altro registro economico, un registro diverso da quello dell’economia del desiderio.

[…]

TK. […] Quando lei tocca il tema del materialismo dialettico, della sua capacità di trasformarsi senza posa, […] sembra quasi di assistere a una descrizione del decostruzionismo. Forse che il decostruzionismo teorizza ciò che il comunismo sovietico ha già anticipato? […]

BG. […] Nel suo libro su Marx Derrida scrive che il materialismo dialettico sovietico è stato solo una forma di dogmatismo, e che in quanto tale non merita alcuna attenzione. Questo è un errore. Il materialismo dialettico non è affatto dogmatico — al contrario, esso muove contro ogni specie di dogmatismo. Il materialismo dialettico parte dallo svolgimento di un processo reale e materiale — il processo di sviluppo delle forze di produzione —, e afferma che un siffatto processo sfugge alla comprensione dello ‘spirito’. È questa la differenza centrale tra la dialettica hegeliana e il materialismo dialettico: nella concezione del materialismo dialettico il processo materiale dello sviluppo tecnico sfugge alla coscienza umana. Dunque non c’è una sintesi definitiva, non si dà, alla fine della storia mondiale, l’abolizione di tutte le opposizioni; al contrario, le opposizioni non cessano di agire sul piano della prassi materiale e agiscono tutte simultaneamente. È la celebre legge dell’unità e della contraddizione degli opposti, il cuore del materialismo dialettico. Questa legge esclude ogni possibile dogmatismo — nel fatto, essa esclude in via preliminare ogni sorta di posizione sostenibile dal punto di vista logico, giacché una posizione logica deve necessariamente escludere il suo contrario, o sia deve rinunciare alla legge dell’unità dei contrari. In questo senso il materialismo dialettico è un antidogmatismo rigoroso, e la sua funzione è quella di immunizzare integralmente le decisioni della direzione del partito da tutte le possibili obiezioni. Quando non si dispone di potere, si è necessariamente dogmatici, perché in questo caso si parla solo in nome di un principio, di una convinzione, di un dogma. […] Heidegger, che è stato il modello di Derrida, è certamente il teorico totalitario del XX secolo. Ma non perché sia stato fascista o nazional-socialista — questa è una stupidaggine. Piuttosto perché egli ha riconosciuto al tempo il diritto illimitato di dettare la verità. A essere precisi, Heidegger non gradiva del tutto le verità del suo tempo. Ha interpretato il suo tempo come il regno illimitato della tecnica — e questo non gli piaceva affatto. Ma riteneva che protestare contro il suo tempo, in nome di un principio astratto o di un’attitudine personale, fosse una cosa indegna — proteste di questo genere gli apparivano cariche di risentimento, antifilosofiche e in fin dei conti indegne. Gli sembrava assai più dignitoso procedere di pari passo col suo tempo […]. Occorre allora affermare che è l’antidogmatismo — non già il dogmatismo — il nucleo effettivo di ogni totalitarismo. Tutte le dittature politiche si fondano al postutto sulla dittatura del tempo. L’impossibilità di sottrarsi al proprio tempo, di sfuggire alla prigione dello spirito del tempo, di emigrare oltre il proprio presente, è la schiavitù ontologica sulla quale riposano tutte le schiavitù politiche o economiche. Le moderne ideologie totalitarie si riconoscono infallibilmente dall’intento di negare la possibilità della sovratemporalità — dal punto di vista di queste ideologie, esiste solo ciò che è contemporaneo o passato […]. Per contro, il dogmatismo risponde sempre al tentativo di sfuggire al tempo e di situarsi nell’elemento sovratemporale, di sostare su un piano che oltrepassa i limiti di un’epoca, sul piano dell’immortalità; in una parola: nel dogma. Ebbene, il materialismo dialettico, in linea con le tesi di Heidegger, sostiene che l’Essere è il tempo — che non possiamo sottrarci alla dittatura del tempo. Il tempo ha sempre ragione, così Victor Schklovski riassumeva l’ideologia dell’era staliniana. Il dogmatismo è invece la fonte di ogni resistenza contro il potere totalitario del tempo, ché dogmatico è chi sostiene che determinate idee e cose sono sovratemporali — senza poterlo provare, s’intende.

[…]

TK. In concomitanza con lo smembramento delle grandi strutture imperiali — da ultimo l’Unione Sovietica — e delle loro ideologie, il soggetto ha perduto il suo statuto autonomo, è sortito dalla capsula individuale, si è aperto — per lo meno dal punto di vista teorico. […] Ritiene ci sia oggi una corrispondenza tra i due movimenti […]?

BG. Sicuramente. Tale corrispondenza è perfettamente visibile, per es., nella retorica comunemente usata per descrivere l’attuale rapporto tra la politica e l’economia. Si dice continuamente che oggi l’economia ha sommerso il soggetto politico, lo ha scalzato dalla sua posizione: il soggetto politico non è più in grado di controllare l’evoluzione economica, il flusso dell’economico lo distoglie dai suoi compiti, lo dissolve. Si utilizza la stessa retorica a proposito dell’erotismo, dei flussi erotici e della libido inconscia. Se individuiamo nell’economia il volto libidico della politica, è perché ci troviamo in una fase in cui la libido economica o la libido dell’economico — la fede nel danaro — ha sommerso il soggetto politico. Il soggetto politico è incapace di controllare la sua stessa riproduzione. L’esistenza del soggetto è soggiogata da flussi economici che egli non può comprendere, limitare o controllare. È senza dubbio in questione l’abdicazione del soggetto, compreso il soggetto politico. Per conseguenza lo Stato si è gradatamente trasformato in un cerimoniale. Il comunismo è stato l’ultimo tentativo storico di sottomettere interamente i fatti economici al soggetto politico. Questa è, in senso stretto, la posizione di un comunismo conseguente. Oggetto del comunismo è la libertà dell’uomo, non certo lo stato di schiavitù — più precisamente, si tratta della libertà dell’uomo rispetto alle costrizioni economiche; è in gioco una sovranità, che si definisce in rapporto alle decisioni economiche. Se prendo una decisione economica nel contesto dello Stato comunista, rifletto anzitutto sulla sua pertinenza politica. A seconda che si tratti di una pertinenza positiva o negativa, dico di sì o di no. Oggi si fa un ragionamento inverso: si prendono decisioni politiche sulla base delle loro possibili conseguenze economiche.

[…]

~ di ariemma su gennaio 30, 2012.

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